Il risarcimento del danno causato dagli animali (domestici, domestici abbandonati -c.d. “randagi”-, fauna selvatica). A cura dell’Avv. Luca Scarone

Il risarcimento del danno causato dagli animali (domestici, domestici abbandonati -c.d. “randagi”-, fauna selvatica). A cura dell’Avv. Luca Scarone

1-CaneDepressoIl risarcimento del danno causato dagli animali (domestici, domestici abbandonati -c.d. “randagi”-, fauna selvatica). A cura dell’Avv. Luca Scarone

L’art. 2052 del codice civile dispone che “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito“.

La norma, che ad una prima lettura può apparire di semplice applicazione, ha invece posto innumerevoli problemi agli interpreti, sotto molteplici profili.

 

I) Anzitutto, a chi fa carico la responsabilità? Chi è il legittimato passivo da evocare in giudizio?

L’esegesi letterale della disposizione pare chiara nell’individuare una responsabilità alternativa (non concorrente) tra il proprietario (o i proprietari in via tra loro solidale in caso di comproprietà) e colui che si “serve” dell’animale (si noti: tutti i tipi di animale purché domestici o comunque non selvatici) per il tempo in cui “lo ha in uso”.

Perché quindi vi sia il trasferimento della responsabilità dal proprietario in capo ad un terzo occorre che il primo si sia temporaneamente spogliato, anche solo di fatto, della facoltà di far uso dell’animale, in favore del secondo.

A ben vedere, tuttavia, non è sufficiente che il terzo “usi” l’animale per un certo periodo di tempo per ritenerlo in ogni caso responsabile dei danni da esso provocati. Occorre anche che

” se ne serva”.

Il concetto è inteso dalla giurisprudenza prevalente in senso ampio: “servirsi” dell’animale può indicare il voler perseguire una finalità economica, un profitto materiale od anche immateriale (si pensi all’attività sportiva o al semplice fine di compagnia).

Non é quindi essenziale il fine in sè dell’utilizzo dell’animale da parte del terzo, quanto che detto fine sia autonomo rispetto a quello del proprietario, comportando l’attribuzione in favore del primo del diritto di usare l’animale per soddisfare un proprio interesse e, di contro, l’onere di risarcire i danni causalmente collegati al suddetto uso.

Il confine tra “utilizzatore responsabile” ed “utilizzatore non responsabile” é comunque sottile e variegata è la casistica giurisprudenziale sul punto.

E’ stata ad esempio esclusa la responsabilità di chi utilizzi l’animale per svolgere mansioni inerenti la propria attività lavorativa, che gli siano state affidate dal proprietario dell’animale alle cui dipendenze egli presti tale attività (Cass. 10189/2010).

In altri casi è stata invece esclusa la responsabilità del proprietario seppure il terzo utilizzatore stesse eseguendo la prestazione lavorativa commissionatagli.

Il discrimen, in questi casi, è dato dalla autonomia della gestione dell’animale correlata al perseguimento di un profitto specifico da parte del terzo.

Se il proprietario mantiene un effettivo potere di governo sullo stesso, e quindi di utilizzo sia pure tramite un terzo, resterà responsabile dei danni.

Recentemente, per fare un esempio, la Cassazione ha respinto la richiesta di risarcimento danni avanzata da un soggetto, nella fattispecie il trasportatore (quindi utilizzatore) di un toro dal centro di allevamento al sito di macellazione, nei confronti della società cooperativa proprietaria dell’animale che, nel mentre delle operazioni di trasporto, aveva provocato danni fisici al trasportatore medesimo. Ciò sul presupposto per cui il danno si era verificato allorquando la cooperativa non aveva alcun potere di governo e controllo dell’animale che, al contrario, era gestito direttamente dal danneggiato trasportatore, cui lo stesso era stato affidato, in modo indipendente ed in funzione del perseguimento di un interesse proprio (l’adempimento della prestazione per trarne il relativo compenso), del tutto distinto rispetto a quello della proprietaria (Cass. 22632/2012).

Qualora, invece, come già detto, il proprietario continui, di fatto, a mantenere una propria ingerenza diretta nel governo dell’animale sarà di norma il medesimo a dover rispondere dei danni da esso arrecati.

In definitiva, l’affidare l’animale ad un terzo per custodia, cura o mantenimento o (come anticipato) il dare disposizioni ad un proprio dipendente affinché utilizzi l’animale per mansioni di lavoro subordinato, o il concederne l’utilizzo all’interno del recinto di un maneggio durante una lezione di equitazione ad allievi principianti non implicano di per sè, sostiene la Cassazione, il venir meno della responsabilità risarcitoria in capo al proprietario, perché rimane quest’ultimo il beneficiario dell’utile economico della gestione dell’animale (Cass. 12307/1998).

Proprietario che, naturalmente, avrà poi la facoltà di esercitare l’azione di regresso nei confronti del custode non utilizzatore dell’animale in caso di violazione dei correlativi doveri di sorveglianza (Cass. 5226/1977).

Si sottolinea, per concludere sul punto, come la corretta individuazione del responsabile civile ex art. 2052 c.c. si differenzi totalmente da quella del responsabile penale (si pensi al classico caso delle lesioni provocate da un cane sfuggito al controllo).

In tal caso è responsabile il proprietario in quanto titolare dell’obbligo giuridico di impedire l’evento (art. 40 c.p.). Obbligo derivante dalla posizione di garanzia collegata al fatto di essere, di norma, solo lui la persona a poter disporre dell’animale, in grado di controllarne le reazioni e pertanto tenuto ad agire al fine di rimuovere ogni situazione di pericolo possa derivare dallo stesso.

Può invece essere anche il semplice, momentaneo, detentore di fatto dell’animale, a prescindere dalle sue finalità d’azione, il responsabile della violazione del precetto di cui all’art. 672 c.p. (omessa custodia e mal governo di animali) non essendo a tal fine necessaria l’esistenza di un rapporto di proprietà inteso in senso civilistico e basandosi tale contravvenzione (alla cui inosservanza può oggi conseguire solo una sanzione di tipo amministrativo) sulla mera relazione di possesso (Cass. Pen. 34765/2008).

II) Cosa occorre provare in giudizio per far valere la responsabilità per i danni patiti? Come, al contrario, il proprietario può esimersi dalla responsabilità?

Occorre a tal riguardo chiarire la natura della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c.

Autorevole dottrina (Bianca) sostiene che essa si fondi sulla violazione del dovere di custodia esistente in capo al proprietario (o a chi “se ne serva” nel senso sopra precisato).

Secondo questa corrente di pensiero si tratterebbe, in sostanza, di una responsabilità per colpa che il proprietario può evitare provando di aver adottato le accortezze e le precauzioni che ragionevolmente, ed anche in relazione alle caratteristiche fisiche e caratteriali dell’animale, si sarebbero potute e dovute ragionevolmente adottare nel caso di specie.

Una seconda tesi, condivisa dalla pressoché unanime giurisprudenza sostiene, al contrario, che si tratti di responsabilità avente carattere oggettivo, il cui presupposto risiede unicamente nell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra il fatto dell’animale e l’evento lesivo.

Nesso di causa che il danneggiato ha l’onere specifico di provare in giudizio.

Qualora, al contrario, il danno non sia primariamente derivato dall’agire dell’animale, dalla condotta attiva seguita dallo stesso ma, in definitiva, da un comportamento del proprietario non verrà in luce l’art. 2052 c.c. ma, se ve ne sono i presupposti, le diverse e generali norme in tema di responsabilità civile (si pensi al cane aizzato nei confronti di un terzo: in tal caso l’animale è inteso come mezzo, strumento, di una condotta negligente riconducibile al proprietario).

Ad esempio, non viene in luce l’art. 2052 c.c. ma, se mai, si potrà invocare l’applicazione dell’art. 2043 c.c., nel caso del pedone distratto che inciampi sul corpo del cane accovacciato all’interno di un centro commerciale.

La tesi della responsabilità oggettiva porta a ritenere che il proprietario, quantunque nei suoi confronti non possa configurarsi alcuna negligenza, imprudenza o imperizia ed anche se si provi che egli comunque non avrebbe potuto evitare l’evento dannoso, risponde sempre di ogni atto o moto dell’animale, fatta salva la possibilità di dar prova del caso fortuito che consiste, secondo i principi generali, in un fattore eccezionale, imprevedibile e pienamente capace, di per sé, a produrre l’evento e causare il danno.

Esso, si badi, può consistere anche nel comportamento di un terzo o dello stesso danneggiato, ma in tal caso deve consistere in una condotta, cosciente, del tutto atipica e che assorba l’intero rapporto causale con il danno.

Si pensi, ad esempio, ai danni causati ad un terzo ad opera di un cane lasciato in deposito presso un canile. Di essi risponde sempre il proprietario, salvo che il comportamento negligente ed a priori razionalmente ed ordinariamente imprevedibile del gestore del canile non possa concretizzare, di per sé, il caso fortuito.

Oppure si pensi alla condotta imprudente e sconsiderata di chi, incurante dei cartelli di avviso di pericolo, si addentri in un’area privata recintata senza autorizzazione e si avvicini troppo ad un cane legato ad una catena che palesi la propria aggressività (Cass. 148292006).

Non integra gli estremi del caso fortuito, invece, la condotta impulsiva o anomala dell’animale seppur mai manifestata in precedenza. Ad esempio, il cane, di regola mansueto, docile ed ubbidiente che per la prima volta si liberi dalla catena non esime da responsabilità (Cass. 26151970). O, ancora, il cane di taglia piccola che, seppur legato al corrimano degli scalini di accesso alla metropolitana, spaventi, latrando, la persona anziana che gli passi vicino, facendola cadere a terra.

Questo perché, si ripete, non può integrare gli estremi del caso fortuito la condotta dell’animale, anche se oggettivamente imprevedibile, dovendo invece consistere in un fattore esterno che deve essere, per escludere la responsabilità, la fonte immediata del danno.

Sulla stessa linea di ragionamento viene sostenuto che sussiste la responsabilità anche in caso di smarrimento o di fuga o dell’animale in quanto accadimenti del tutto prevedibili.

Qualora, invece, un terzo concorra con il proprietario alla verificazione dell’evento, la responsabilità avrà natura solidale.

III) Chi risponde dei danni provocati dall’animale da affezione abbandonato (c.d. randagio)? Ed in questo caso, cosa occorre provare per ottenere il risarcimento del danno patito?

Il fenomeno del randagismo trova la propria disciplina nella legge quadro n. 281/1991 che impone alle Regioni di emanare leggi che individuino e distribuiscano in capo ai Comuni e/o alle ASL il compito di assumere i provvedimenti idonei a vigilare il territorio, catturare, custodire e mantenere gli animali randagi e così impedire che essi arrechino disturbo, molestia ed ancor più danni fisici ai cittadini, cui deve essere garantito il diritto, tutelato anche a livello costituzionale, della libera e sicura circolazione sul territorio pubblico.

A seconda della normativa regionale che verrà alla luce nel caso di specie, quindi, risponderà del danno la ASl di riferimento o, solidalmente, il Comune.

Esposta la cornice legislativa di riferimento occorre altresì notare come la tutela giuridica e quindi la possibilità di ottenere il risarcimento del danno patito sia in questi casi certamente più gravosa per il danneggiato.

Ciò perché non si applica l’art. 2052 c.c., invero applicabile solo a condotte di animali domestici o comunque non selvatici (cfr. Corte Cost. n. 4/2001) posto che l’Ente pubblico non è qualificato dalla legge come custode dell’animale, bensì la clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.

Ciò significa che occorrerà dar prova, in giudizio, non solo dell’evento lesivo e del nesso di causa tra il danno e l’azione dell’animale ma anche dei profili, specifici e concreti, di colpa ascrivibili in capo all’Ente pubblico.

Così, l’esistenza di una pluralità di segnalazioni al Comune della presenza di branchi di randagi nell’area cittadina può comprovare la negligenza del Comune stesso, allorquando non siano state dallo stesso adottate le misure necessarie ad evitare pregiudizi ai cittadini (morsi o anche solo latrati aggressivi fonti di cadute a terra – Cass. 10190/2010).

IV) Da ultimo, chi risponde ed in base a quale norma del danno provocato dalla fauna selvatica (si pensi al classico caso dell’incidente avvenuto in autostrada tra autovettura ed animale selvatico)?

La fauna selvatica appartiene ai beni patrimoniali indisponibili dello Stato. Soddisfano il godimento dell’intera collettività e sulla collettività (quindi sullo Stato) deve ricadere la responsabilità civile derivante dai danni da essa provocati.

La legge di riferimento è la n. 157 del 1992 che affida alle Regioni i poteri di gestione, tutela e controllo della fauna selvatica.

Sono quindi le Regioni in linea di massima che rispondono di tutti i relativi danni, sia fisici alle persone che ad esempio alla produzione agricola, ai manufatti ed alle opere agricole ai terreni adibiti a pascolo.

 

La singola legislazione regionale, tuttavia, potrà aver affidato alle singole province obblighi specifici di cura e controllo del territorio.

 

Sarà allora compito del legale approfondire la fattispecie al suo esame, individuando con precisione l’Ente legittimato passivo cui indirizzare la richiesta di risarcimento del danno patito dall’assistito.

 

Quanto alla natura ed al regime della responsabilità, la giurisprudenza prevalente tende ad escludere l’applicazione dell’art. 2052 c.c. (non trattandosi di animali domestici) per applicare, invece l’ordinario regime di responsabilità civile extracontrattuale ex art. 2043 c.c. 

Avv. Luca Scarone

Previous Luca Scarone
Next E' obbligo del ministero dell'istruzione risarcire l'alunna violentata a scuola

You might also like