Risponde dei danni da inquinamento provocati dal conduttore  anche il locatore/proprietario – Cassazione Civile Sentenza n. 6525 del 22 Marzo 2011

Risponde dei danni da inquinamento provocati dal conduttore anche il locatore/proprietario – Cassazione Civile Sentenza n. 6525 del 22 Marzo 2011

rifiuti-pollenaCassazione Civile Sentenza n. 6525 del 22 Marzo 2011

La Suprema Corte con la sentenza 22 marzo 2011, n. 6525, ha condannato il proprietario di un terreno, concesso in locazione, al pagamento, a titolo di  risarcimento dei danni ambientali provocati dal proprio  conduttore, il quale, nell’area locata, aveva abbandonato alcuni rifiuti tossici; in base alla sentenza in epigrafe, presa la consapevolezza circa l’esistenza dei rifiuti tossici sul terreno dato in locazione, il proprietario, onde evitare la corresponsabilità con il conduttore, avrebbe dovuto pretendere, immediatamente  lo sgombero dei terreni ed eventualmente adire le vie giudiziali in via cautelare.

 

Nel caso di specie nei riguradi del conduttore era stata avviata una indagine penale, a seguito della quale  veniva disposto il sequestro dell’area ed il Comune aveva provveduto ad ingiungere a società e conduttori di liberare il terreno dai rifiuti tossici; tale richiesta, però, non veniva accolta. Con il proprio comportamento omissivo (omissione della dovuta vigilanza nei confronti del conduttore) il locatore non aveva, quindi, “evitato che la situazione degenerasse”, di fatti,  a causa di una esondazione di un vicino fiume, i rifiuti avevano raggiunto altri appezzamenti circostanti costringendo il Comune ad un intervento immediato e costoso per l’opera di bonifica.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 22 marzo 2011, n. 6525

Svolgimento del processo

p.1. Nel settembre del 2000 il Comune di Marnate conveniva davanti al Tribunale di Busto Arsizio la s.p.a. Sanitaria Ceschina, nella sua qualità di proprietaria di un terreno in **** e, premetteva:

che all’inizio dell’anno 1989 la U.S.S.L. territoriale aveva accertato la presenza su di esso, condotto in locazione da S. A. e C.A., di materiali classificati come rifiuti tossico-nocivi; che il terreno era stato sottoposto a sequestro penale il **** dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio; che con varie ordinanze sindacali fra il maggio 1989 ed il dicembre 1996 era stata ingiunto inutilmente alla convenuta e con la prima ordinanza anche ai due conduttori di sgomberare il terreno dai detti materiali; che nel settembre del 1995 l’esondazione del fiume **** aveva cagionato la fuoriuscita di parte dei materiali dal terreno ed inquinato i terreni dei proprietari confinanti, con la conseguenza che esso attore aveva dovuto eseguire interveti di bonifica ambientale per un costo di L. 1.916.730.000.

Sulla base di tali premesse, adducendo che ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14, comma 3, la convenuta, quale proprietaria del terreno doveva ritenersi responsabile dell’inquinamento ai sensi degli artt. 2043 e 2051 c.c. per avere omesso di vigilare sui due conduttori, per non avere attuato alcun intervento pur essendo consapevole della presenza dei rifiuti e per non avere ottemperato alle ordinanze sindacali, chiedendo il dissequestro del terreno, il Comune chiedeva la condanna della società convenuta alla rifusione di costi sopportati e al risarcimento del danno ambientale. p.1.1. La convenuta si costituiva e contestava l’avversa pretesa.

Il Tribunale, con sentenza del giugno 1989, riteneva nella fattispecie applicabile in via esclusiva l’art. 14 del citato D.Lgs. e, reputata sussistente la colpa della convenuta, condannava la medesima al pagamento della somma corrispondente al costo sopportato per i lavori di bonifica dal Comune, mentre negava il diritto al risarcimento del danno ambientale, in quanto quei lavori l’avevano eliminato. p.2. La sentenza veniva appellata dalla s.p.a. Sanitaria Ceschina e, nella resistenza del Comune, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 26 novembre 2005, ne disponeva la riforma e respingeva la domanda del Comune. p.3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione in via principale il Comune di Marnate sulla base di tre motivi (il quarto non essendo tale, perchè si limita a propugnare – per il caso di accoglimento degli altri e, quindi di cassazione della sentenza -la decisione nel merito).

La s.p.a. Sanitaria Ceschina ha resistito con controricorso, nel quale ha svolto un motivo di ricorso incidentale e tre motivi di ricorso incidentale condizionato. p.4. La resistente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
p.1. Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso incidentale a quello principale, in seno al quale è stato proposto. p.2. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14 violazione art. 42 Cost., violazione art. 2697 c.c., in materia di onere della prova in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3”.

Vi si censura la seguente parte della motivazione della sentenza impugnata, nella quale la Corte territoriale – dopo avere rilevato che la Sanitaria Ceschina poteva essere chiamata a rispondere della mancata eliminazione dall’area di sua proprietà dei rifiuti unicamente alla stregua del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14, comma 3, e che, quale proprietaria, ai sensi di detta norma, la responsabilità per la rimozione, l’avvio a recupero e lo smaltimento, nonchè per le spese di ripristino dello stato dei luoghi, le poteva essere attribuita solo per dolo o colpa – ha, una volta rilevato che il dolo non era ipotizzabile, ritenuto inesistente la colpa osservando, nel censurare il diverso avviso della sentenza di primo grado, quanto segue: “vero è, come si legge in sentenza, che la s.p.a. Sanitaria Ceschina era consapevole della presenza dei rifiuti tossico-nocivi in questione, ma è altresì vero che si è attivata per la loro eliminazione, come da accordo scritto con i due conduttori del terreno – S. e C. – in data 5.1.1989, con il quale questi ultimi si sono impegnati ad attuare lo sgombero entro il 30.10.1989, con pattuizione di una penale a loro carico di L. 100.000 per ogni giorno di ritardo. La società appellante si è dunque adoperata nel limite del possibile per eliminare il pericolo di danno ambientale inerente ai rifiuti di cui trattasi. Essa, d’altra parte, non aveva potere diretto di ingerenza sull’immobile concesso in locazione e quanto ivi esistente”.

Questa motivazione – ad avviso del Comune ricorrente – avrebbe escluso erroneamente la colpa per le seguenti ragioni:

a) nella specie non si trattava di deposito occasionale di rifiuti avvenuto senza autorizzazione, ma di deposito avvenuto con l’autorizzazione della proprietaria;

b) la Corte territoriale avrebbe esaminato la questione ricercando ed escludendo soltanto una colpa commissiva e non anche una colpa in senso omissivo, in particolare astenendosi dall’indagare “quale livello di iniziativa e di attivazione in funzione preventiva avrebbe potuto esigersi in concreto dal proprietario per impedire ed evitare non solo lo sversamento abusivo dei rifiuti sulla sua proprietà, ma anche il permanere incustodito per più di 6 anni di rifiuti tossico- nocivi sul terreno”;

c) la cessione in locazione del terreno a produttore di beni che richiedono sostanze inquinanti, secondo una dottrina integrerebbe comportamento colposo.

A queste deduzioni l’illustrazione del motivo fa seguire la formulazione di due quesiti di diritto, ancorchè l’art. 366-bis c.p.c. non sia applicabile al ricorso.

Quindi, alla pagina nove si articolano tre capoversi con enunciazioni del tutto astratte e prive di riferimenti alla vicenda ed alla motivazione, sia in punto di soggetto gravato dell’onere della colpa, sia di rilievo dell’art. 42 Cost., comma 2 nel ricostruire la posizione del proprietario.

Nella quarta proposizione si imputa alla Corte milanese di avere ignorato il principio che imporrebbe “in capo al proprietario un minimo di diligenza esigibile nel gestire il suo bene tale da impedire o comunque ostacolare fatti di abbandono di rifiuti” ed ancora le si addebita di avere sostenuto una tesi secondo cui “al proprietario che non abbia materialmente posto in essere l’attività non possa essere ascritta alcuna responsabilità nella causazione dell’inquinamento”, attribuendo siffatto contenuto a questo passo della motivazione: “alla società appellante non può essere addebitata colpa per omissione di controllo, dato che a soli quattro mesi di distanza è stato eseguito quel sequestro penale che ha tolto al S. e al C., senza recupero da parte della società stesa, la disponibilità dell’area e la possibilità di prelevarvi e portare altrove i rifiuti tossici. Non ha poi base probatoria il dubbio espresso dal primo giudice in ordine alla affidabilità dei due conduttori per l’esecuzione di una efficace e tempestiva operazione di sgombero, che non risulta richiedesse particolari competenze”.

Le affermazioni della Corte territoriale mal si coordinerebbero con la natura giuridica e gli effetti dell’onere reale, perchè ridurrebbero “la posizione del proprietario incolpevole a quella del soggetto meramente inerte e passivo, mentre le previsioni dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare previste dal D.Lgs. n. 22 del 1997 limitano fortemente il principio dell’irresponsabilità del proprietario inerte”.

L’illustrazione del motivo si chiude con la sottolineatura della particolare importanza che assumerebbe l’obbligo giuridico di impedire il fatto, dal quale discenderebbe l’imposizione di una soglia di diligenza minima al proprietario, che, peraltro non rappresenterebbe una vessazione nei suoi riguardi. p.3. Con il secondo motivo ci si duole di “violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14; violazione art. 42 Cost.; violazione art. 2697 c.c. in materia di onere della prova in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); ovvero: Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 per incongruità, contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione e per omessa ed erronea valutazione delle risultanze documentali;

omessa insufficiente, contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia prospettati dal Comune di Marnate in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. 3.1. Sotto un primo aspetto, si rileva che la Corte territoriale, pur essendo partito dalla premessa che la società resistente, quale proprietaria, avesse un dovere di attivarsi “per non aggravare il pericolo di inquinamento”, avrebbe, tuttavia, erroneamente ritenuto che essa si fosse attivata “nei limiti del possibile” attraverso la stipula dell’accordo del 5 gennaio 1989, tenuto conto che non aveva potere diretto di ingerenza sull’immobile e su quanto su di esso esistente perchè l’immobile era stato concesso in locazione.

L’errore commesso dalla Corte meneghina sarebbe stato di avere considerato, per valutare l’onere di attivazione soltanto la conclusione del detto accordo, tra l’altro risultante da “documento non confermato dalle prove testimoniali espletate”, e non anche il fatto ben più pregnante della mancata attivazione di procedure giudiziali sia per la risoluzione del contratto locativo per uso del terreno non conforme alla legge e per il suo rilascio, sia per ottenere “l’esecuzione coattiva dell’asserito impegno di sgombero da parte del S. e del C.”. p.3.2. Sotto un secondo aspetto si rileva che la resistente non aveva mai prodotto alcun contratto di locazione dell’immobile che giustificasse la detenzione qualificata del S. e del C., bensì soltanto un contratto del gennaio 1980 con altro soggetto.

Si sostiene, quindi, che detta omissione sarebbe “certamente significativa”, rimarcando, altresi, che del contratto locativo nemmeno si erano dedotti i termini e quale fosse l’attività denunciata dai conduttori, onde non sarebbe “sufficientemente convincente” la motivazione con cui la Corte territoriale ha escluso l’esistenza di alcun profilo di colpa sulla proprietaria. Ed anzi gli elementi in discorso, non considerati dal quella Corte, sarebbero idonei “a fondare un autonomo titolo di colpa (omissiva) concorrente con quella ascrivibile al comportamento del responsabile dei fatti di inquinamento”.

A sostegno di tali deduzioni si fa riferimento a dottrina che avrebbe ravvisato in capo al proprietario un onere di controllo sull’attività compiuta sul fondo anche in caso di affitto, se del caso riconducibile all’ambito dell’art. 2050 c.c. nel caso di conferimento della disponibilità per l’attività causativa dell’inquinamento. p.3.3. Si assume, quindi, che l’affitto del fondo non esenterebbe il proprietario dall’onere di controllare che di esso si faccia un uso conforme a legge e che, pur non estrinsecandosi esso in un potere di controllo e vigilanza sul rispetto delle norme ambientali e sanitarie, si configurerebbe un dovere di attivazione, allorquando l’esistenza di una situazione potenzialmente riconducibile all’art. 14 citato risulti, per le attività compiute sul fondo, percepibile con la media diligenza. Nella specie tale possibilità tanto più si sarebbe potuta configurare in capo alla resistente, tenuto conto:

aa) che essa è azienda produttrice di farmaci e, come tale edotta delle normative ambientali e sui rifiuti;

bb) che le opere realizzate sul terreno – consistenti nell’accumulo di rifiuti, nella sistemazione di ben nove cisterne e nella realizzazione di “opere di condotti e tubazioni di conduzione di liquido oleoso a una caldaia ai fini della combustione” e, dunque, in sostanza, di un impianto di smaltimento di rifiuti pericolosi attraverso termodistruzione -erano ben visibili e non occulte, onde risultava inverosimile che la Sanitaria Ceschina ignorasse che cosa stava avvenendo sul terreno.

Ne seguirebbe che del tutto insufficiente si sarebbe dovuto ritenere l’affidamento agli stessi soggetti inquinatorì dell’effettuazione delle operazioni relative allo smaltimento, senza che la società si attivasse direttamente e controllasse lo svolgimento di detta attività e senza che fosse verificata l’abilitazione all’operazione di detti soggetti (come aveva rilevato il Tribunale in primo grado).

Se mal non si comprende, si assume, poi, che la Sanitaria Ceschina aveva addirittura conservato la custodia materiale dopo il sequestro penale dei rifiuti, posto che era stato nominato custode il signor A., cioè proprio il soggetto che per conto della stessa aveva conferito l’incarico di sgomberare ai conduttori.

Si fa riferimento, inoltre, come profilo di colpa specifica all’inosservanza delle ordinanze sindacali, che non erano state sospese in via cautelare dal giudice amministrativo e che imponevano di attivarsi per impedire ogni possibile inquinamento del sito.

Tutte tali complessive considerazioni evidenzierebbero l’error in indicando della corte territoriale in ordine all’esclusione della colpa della resistente. p.4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione artt. 2721 e 2724 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 39”, sotto il profilo che al documento relativo al verbale del 5 gennaio 1989, prodotto come documento n. 22 e presente nel fascicolo della Sanitaria Ceschina, si sarebbe dato credito quanto alla consegna del terreno, ancorchè il teste A. non avesse confermato il capitolo di prova per testi dedotto dalla stessa con la memoria del 17 gennaio 2001 e nel quale si assumeva che l’area era stata consegnata al S. con la presa di possesso da parte sua dei beni di cui al detto verbale. Il detto teste, dipendente della società, aveva infatti affermato di non avere consegnato alcuna area, ma di avere firmato “qualcosa in presenza di un maresciallo dei carabinieri” e, dunque, presumibilmente il verbale del sequestro penale.

Non essendo stato il verbale del 5 gennaio 1989 confermato per testi, nessuna prova vi era “in ordine alla vicenda ed ai rapporti relativi alla consegna del terreno di cui trattasi”. p.5. Il quarto motivo – come s’è già avvertito – non è tale, ma si risolve nella sollecitazione, per il caso di accoglimento degli altri, ad una cassazione con decisione sul merito. p.6. Con l’unico motivo di ricorso incidentale non condizionato si lamenta “violazione e/o falsa applicazione art. 91 c.p.c., comma 1 e art. 92 c.p.c., comma 2 circa la condanna della parte soccombente al rimborso delle spese, ex art. 360, comma 1, n. 3” e, in prima battuta sull’assunto della soggezione del giudizio, avuto riguardo alla data di proposizione del ricorso per cassazione, alla disciplina dell’art. 92 c.p.c., comma 2 introdotta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2 si lamenta che la Corte milanese abbia compensato le spese senza indicare le ragioni della compensazione. In seconda battuta si deduce che la compensazione, pur valutata alla stregua della disciplina precedente, non sarebbe stata giustificata. p.6.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato si prospetta “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c. sulla sospensione del giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” e si lamenta che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto che fondatamente il Tribunale aveva disatteso l’istanza di sospensione del giudizio in attesa della definizione dei giudizi amministrativi introdotti avverso alcune ordinanze rese dal Sindaco del Comune di Marnate.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale condizionato si deduce “violazione e/o falsa applicazione art. 346 c.p.c. sulla decadenza della domande ed eccezioni non riproposte, ex art. 360 c.p.c., comma 1 comma, n. 3”, adducendo che erroneamente ed in violazione dell’art. 346 c.p.c. la Corte milanese avrebbe ritenuto non esaminabile l’eccezione di prescrizione, in quanto non vi era stata censura in ordine alla statuizione di rigetto del giudice di primo grado ed alle argomentazioni che la sorreggevano. Si assume che l’eccezione era stata riproposta con l’atto di appello “a mezzo si menzione nell’atto introduttivo (v, p. 7 atto di appello), formulazione di domanda nelle conclusioni dell’atto di appello, confermata in sede di precisazione delle conclusioni medesime, articolato richiamo delle ragioni a fondamento in sede di comparsa conclusionale”.

Con quello che viene indicato come terzo motivo si sollecita decisione nel merito, fondata sull’applicazione della prescrizione nei termini in cui era stata eccepita, sulla cui illustrazione ci si diffonde. p.7. Il Collegio preliminarmente rileva che l’esame del primo motivo di ricorso incidentale condizionato – concernente questione rilevabile d’ufficio – deve seguire quello del ricorso principale, perchè la questione che ne è oggetto è stata espressamente decisa dalla sentenza impugnata e, dunque, l’interesse all’esame del motivo può sorgere solo per l’ipotesi di accoglimento in tutto od in parte del ricorso principale (in termini, ex multis, Cass. sez. un. 5456 del 2009). p.8. L’esame dei primi due motivi del ricorso principale può avvenire unitariamente, stante la loro stretta connessione: con essi, infatti, si censura la valutazione con cui la Corte territoriale ha escluso la ricorrenza di una responsabilità della resistente alla stregua del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14, comma 3, per mancanza di comportamento colpevole. p.8.1. Prima di procedere all’esame dei due motivi, la Corte rileva l’infondatezza delle eccezioni di incongruenza dei quesiti di diritto formulati dal ricorrente e di mancanza di correlazione fra i motivi e le conclusioni del ricorso principale.

La prima eccezione è irrilevante, perchè il ricorso non è soggetto alla disciplina dell’art. 366-bis c.p.c., essendo stata la sentenza impugnata pubblicata anteriormente al 2 marzo 2006 (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2), onde i quesiti sono stati prospettati inutiliter, non incombendo sul ricorrente l’onere di formularli.

La seconda eccezione – motivata con il rilievo che nelle conclusioni del ricorso si è chiesta la cassazione senza rinvio ai sensi dell’art. 382, comma 3, e che tale richiesta sarebbe del tutto inconferente risputo ai motivi – non può giustificare l’inammissibilità del ricorso, pur essendo indubitabile che effettivamente l’applicazione di detta norma e, dunque, la cassazione senza rinvio da essa prevista è stata richiesta senza alcuna coerenza con i motivi, i quali potrebbero giustificare o una cassazione con rinvio ai sensi dell’art. 383 c.p.c. o una cassazione e decisione nel merito, siccome si postula con quello che parte ricorrente ha prospettato come quarto motivo. Viene, infatti, in rilievo il consolidato principio di diritto secondo cui “Il giudice di legittimità provvede d’ufficio sulla cassazione della sentenza impugnata con o senza rinvio o decidendo nel merito, secondo che il vizio riscontrato rientri nelle ipotesi previste dagli artt. 382 e 383 c.p.c., o art. 384 c.p.c., comma 1, ult. parte, sicchè è irrilevante l’eventuale erroneità delle richieste delle parti in un senso o nell’altro”. (Cass. n. 12235 del 2002; Cass. sez. un. n. 6994 del 2010; per un’ipotesi eccezionale e del tutto particolare di rilevanza della richiesta della parte ricorrente con riguardo ad error in procedendo, si veda, invece, Cass. n. 917 del 2010. Ma nella specie non ricorre una situazione simile a quella considerata da tale decisione).

Si aggiunga che in via subordinata parte ricorrente ha chiesto anche la cassazione con rinvio. p.8.2. Ciò chiarito, il Collegio rileva che i primi due motivi sono fondati per le ragioni e nei limiti in cui si dirà.

E’ necessario premettere alcune precisazioni giustificative dei limiti entro i quali i motivi verranno ritenuti fondati. p.8.2.1. La prima precisazione è nel senso che si è formata cosa giudicata interna nel corso delle fasi di merito su tre questioni, una relativa alla individuazione della cornice normativa entro la quale la vicenda dev’essere ricondotta, la seconda concernente una situazione relativa ad un fatto storico, la terza concernente la posizione della resistente.

Sotto il primo profilo, la sentenza impugnata – alla pagina sette – dice espressamente che la sentenza di primo grado aveva ricondotto la vicenda sotto l’ambito del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14 e che tale qualificazione non era stata oggetto di impugnativa e su di essa si era formata cosa giudicata. Nè i motivi di ricorso principale nè quelli di ricorso incidentale hanno censurato tale affermazione ed anzi si muovono nel presupposto della condivisione di quella qualificazione. Ne consegue che questa Corte deve apprezzare il ricorso e, di riflesso la vicenda nei limiti in cui ne è stata investita con i motivi di ricorso, ritenendo che essa trovi collocazione normativa sotto l’ambito della disciplina del citato art. 14 (il cui contenuto, come è noto, è ora, in ragione dell’abrogazione dei esso da parte del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 264 trasfuso nell’art. 192 di quest’ultimo). E ciò ancorchè restino non scrutinabili le ragioni per cui una vicenda come quella di cui è processo, articolatasi per gran parte dei fatti storici e soprattutto delle condotte rilevanti anteriormente all’entrata in vigore della norma dell’art. 14 (atteso che la stessa esondazione del fiume Olona, che provocò la dispersione di rifiuti tossico-nocivi si verifieò anteriormente e semmai l’attività di bonifica eseguita dal Comune si collocò successivamente (come dai documenti n. 10, 11 e 12, cui si allude nell’esposizione del fatto nel ricorso). D’altro canto, l’avere la Corte territoriale affermato che per effetto della mancata censura della riconduzione della vicenda da parte della sentenza di primo grado sotto l’ambito dell’art. 14 citato si era formato giudicato rende impossibile in questa sede valutare se la Corte territoriale abbia applicato correttamente il concetto di giudicato interno oppure avesse la possibilità di esercitare il potere di qualificazione normativa dei fatti a prescindere da una impugnazione sul punto: l’avere espressamente quella Corte ravvisato in giudicato interno imponeva alla parte interessata di proporre, in caso di dissenso, impugnazione sul punto in questa sede e l’assenza di tale impugnazione preclude ogni valutazione sul punto da parte di questa Corte.

Il principio di diritto che viene in rilievo è il seguente: “ove il giudice d’appello affermi che la riconduzione da parte del giudice di primo grado della vicenda giudicata sotto una certa disciplina normativa, non essendo stata sottoposta ad impugnazione, è coperta da giudicato interno e, quindi, ritenga di dover esaminare i motivi di appello proposti tenendo ferma la qualificazione della vicenda sulla base di quella disciplina, la Corte di cassazione, in sede di ricorso contro la sentenza d’appello, qualora l’affermazione sull’esistenza del detto giudicato non sia stata censurata, è anch’Essa vincolata a procedere all’esame dei motivi di ricorso sulla base della stessa disciplina normativa”.

Sotto un secondo aspetto la sentenza impugnata ha rilevato che per mancanza di impugnazione della sentenza di primo grado si era formato giudicato interno sulla circostanza che, all’inizio dell’anno 1989, il terreno su cui insistevano i rifiuti era condotto in locazione da S.A. e C.A., in forza, evidentemente, di un contratto stipulato con la qui resistente. Sulla rilevata esistenza del giudicato interno non è stata proposta alcuna censura, che avrebbe dovuto evidenziare l’insussistenza della formazione del giudicato interno per difetto di impugnazione sul punto della sentenza di primo grado. Ne consegue che lo scrutinio dei motivi di ricorso principale (e di quelli del ricorso incidentale) deve avvenire sulla base del dato incontestabile che vi era quel rapporto di locazione. Da qui la conseguenza che, là dove la seconda censura proposta dal secondo motivo (e di cui si è riferito al precedente punto 3.2.) sembrerebbe adombrare un dubbio sull’effettiva esistenza del rapporto locativo, se ne deve rilevare l’inammissibilità. Di modo che la censura può soltanto essere apprezzata nel profilo che, in ragione del carattere non chiaro dei termini del contratto, imputa alla Corte territoriale di avere male apprezzato la configurabilità nel comportamento della resistente di una colpa.

Sotto il terzo aspetto, la sentenza impugnata ha altresì rilevato che si era formata cosa giudicata interna sul fatto che i due conduttori S. e C. fossero “gli unici responsabili diretti della presenza nel terreno stesso dei rifiuti tossico-nocivi” di cui la competente U.S.S.L. aveva accertato l’esistenza sul terreno di proprietà della Sanitaria Ceschina “nei primi mesi di tale anno cioè del 1989”. Anche su questo punto non è stato proposto alcun motivo di ricorso. p.8.3. Sulla base dei punti fermi appena evidenziati si può procedere all’inquadramento, nell’ambito (necessitato, per quel che si è detto) della fattispecie normativa di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 14 della vicenda per come devoluta a questa Corte sulla base dei motivi di ricorso principale.

Il tenore della norma (sostanzialmente immutato nella norma che l’ha sostituita), sotto la rubrica “Divieto di abbandono”, era il seguente: “1. L’abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. 2. E’ altresì vietata l’immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee. 3. Fatta salva l’applicazione delle sanzioni di cui agli artt. 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessaria ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate. 4. Qualora la responsabilità del fatto illecito di cui al comma 1 sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica, ai sensi e per gli effetti del comma 3 sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che subentrano nei diritti della persona stessa”.

Nella fattispecie normativa sono contemplate nel comma 1 e nel comma 2 anzitutto tre condotte, rappresentate da “abbandono” di rifiuti “sul suolo e nel suolo”, da “deposito incontrollato” sempre sul suolo o nel suolo, e dalla ” immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee”.

Ciascuna di queste tre condotte da luogo – ferma la soggezione alle sanzioni previste dall’art. 50 o dall’art. 51 dello stesso D.Lgs., che colpiscono direttamente la condotta di abbandono o di deposito – alla conseguenza dell’insorgenza di un obbligo di attivazione, rappresentato dal dover provvedere alla “rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi”.

Queste condotte ripristinatorie sono imposte innanzitutto all’autore delle condotte contemplate dai commi 1 e 2. In secondo luogo lo sono in via solidale al proprietario, al titolare di un diritto reale di godimento e al titolare di un diritto personale di godimento sull’area interessata dalle condotte suddette (che, per quanto attiene alla immissione, è, evidentemente, quella da cui l’immissione avviene). Tali soggetti sono tenuti alle condotte ripristinatorie, il cui inadempimento da luogo poi alla soggezione alle spese di recupero, purchè vi sia stata una loro condotta dolosa o colposa. Siffatta condotta, secondo l’apparente tenore della norma deve riguardare la stessa condotta contemplata nei commi 1 e 2, nel senso che detti soggetti debbono aver tenuto una condotta, commissiva od omissiva, che ha concorso (con quella dell’autore materiale della violazione) alla verificazione della violazione ed è stata frutto di un loro atteggiamento doloso o colposo.

Tale condotta commissiva od omissiva per il proprietario concedente del diritto reale di godimento o della locazione sul bene si può naturalmente concretare: a1) sia nell’avere consentito espressamente o anche tacitamente l’uso del fondo da parte dell’usufruttuario o del conduttore come deposito di rifiuti; a2) sia nell’essere rimasti inerti dopo avere conosciuto di tale adibizione, cioè nel non avere esercitato contro l’usufruttuario o il conduttore i poteri intesi a far cessare la situazione di utilizzazione del fondo come deposito.

Nonostante l’apparente limitazione in tal senso non può, poi, dubitarsi che anche l’inadempimento della condotta ripristinatoria alla cui tenuta quei soggetti sono obbligati una volta che ricorra la situazione di causazione dolosa o colpevole nel senso appena detto (con l’autore materiale della violazione) dev’essere frutto di dolo o colpa.

L’obbligo ripristinatorio, infatti, si configura come una sanzione amministrativa. I soggetti in questione sono tutti quelli che hanno un titolo di godimento sul terreno sul quale si è verificato l’abbandono o il deposito o dal quale si sono originate le immissioni.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno anzi relativizzato l’indicazione delle figure in questione sottolineando che “In tema di abbandono di rifiuti, sebbene il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 14, comma 3, (applicabile “ratione temporis”) preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari di diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o colpa, tale riferimento va inteso, per le sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto che si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli – e per ciò stesso imporgli – di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente; per altro verso, il requisito della colpa postulato da tale norma può ben consistere nell’omissione delle cautele e degli accorgimenti che l’ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un’efficace custodia. (Fattispecie relativa ad ordinanza nei confronti di un Consorzio di bonifica per provvedere alla rimozione, all’avvio al recupero, allo smaltimento ed alla messa in sicurezza dei rifiuti depositati lungo un fiume) (così Cass. sez. un. n. 4472 del 2009). p.8.3.1. Va chiarito, altresì, che le condotte ripristinatorie del comma 3 della norma hanno, peraltro, ciascuna una rilevanza autonoma, una cosa essendo la “rimozione”, altra “l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti”, altra il “ripristino dello stato dei luoghi”. Ognuno dei soggetti indicati o comunque – secondo la prospettiva delle Sezioni Unite contemplati implicitamente dalla norma può certamente rendersi responsabile di tutte o solo di alcune delle inadempienze a tali condotte ad essa correlate.

Va rilevato, inoltre, che le condotte ripristinatorie, pur non essendo escluso che possano tenersi d’iniziativa del soggetto obbligato, diventano obbligatorie se e quando il sindaco abbia disposto con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere.

Le modalità (che sono cosa diversa dalle operazioni) con le quali l’obbligo di tenere le condotte ripristinatorie dev’essere adempiuto sono necessariamente correlate all’atteggiarsi della situazione giuridica che i soggetti espressamente contemplati (e gli altri che sono ad essi apparentabili) hanno sull’area di abbandono o deposito dei rifiuti o di origine dell’immissione. In particolare, la circostanza che la norma contempli la situazione di proprietà o di diritto reale di godimento come giustificativa dell’imposizione dell’obbligo, poichè notoriamente il proprietario ed anche il titolare di un diritto reale di godimento (almeno dell’usufrutto, posto che l’usufruttuario può locare il bene) possono godere indirettamente del bene, comporta che dell’obbligo ripristinatorio questi soggetti debbano rispondere non solo se esercitano il godimento del fondo direttamente, ma anche se lo esercitino indirettamente e, quindi, quanto al proprietario, anche se egli abbia concesso un diritto reale di godimento oppure un diritto personale di godimento (come la locazione) e, quanto al titolare del diritto reale di godimento, se abbia locato il bene. p.8.3.2. Ora, rimozione, avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi sono attività che, per essere compiute, richiedono l’esistenza di un potere diretto sul terreno. Quando vi sia un diritto reale o personale di godimento sul bene, il proprietario non ha questo potere diretto sul terreno, ma l’obbligo di cui è onerato ai sensi dell’art. 14, comma 3 non per questo può dirsi a lui non riferibile. Sia il proprietario verso l’usufruttuario, sia il proprietario verso il conduttore possono pretendere che l’usufruttuario e il conduttore tengano essi le condotto di cui a loro volta sono verosimilmente onerati (per essere a loro volta in colpa o di dolo) e, nel caso di rifiuto, essi possono attivarsi giudizialmente per ottenere che l’usufruttuario o il conduttore provvedano, oppure per chiedere di essere autorizzati in loro vece a provvedere. L’azione in sede giudiziale può naturalmente concretarsi anche in via cautelare. Se del caso, ove la situazione sia tale da determinare o una situazione di abuso del diritto dell’usufruttuario o di uso illecito del ben locato, l’azione giudiziale può anche indirizzarsi nella prospettiva della richiesta di accertamento dell’estinzione del diritto di usufrutto per abuso dell’usufruttuario o nella richiesta di risoluzione del contratto locativo per uso della cosa non consentito ed anzi illecito. Ciò, al fine di riacquisire la disponibilità del fondo e provvedere alle attività ripristinatorie imposte. p.8.3.3. Va rilevato, altresì, che nella presente vicenda il Comune verosimilmente avrebbe potuto, una volta eseguito il ripristino, procedere alla riscossione coattiva se del caso ai sensi del testo unico sulla riscossione coattiva delle entrate patrimoniali, ma, naturalmente, nulla gli impediva di dar corso – come fece – alla sua pretesa in via di azione ordinaria. p.9. Alla luce del ricostruito quadro normativo può ora passarsi all’esame dei primi due motivi di ricorso, i quali, al di là di una certa farraginosità espositiva, censurano la valutazione con cui la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto di escludere che, agli effetti della pretesa recuperatoria fatta valere dal Comune, la Sanitaria Ceschina versasse in colpa. p.9.1. La motivazione resa dalla Corte lombarda è viziata in iure al riguardo in tutti i suoi passaggi e in primo luogo nel passaggio cui si riferisce il primo motivo di ricorso e che è stato riportato sopra al paragrafo 2.

Invero, una volta acquisita consapevolezza dell’esistenza dei rifiuti sul terreno concesso in locazione, la stessa stipulazione dell’accordo del 5 gennaio 1989 per l’eliminazione dei rifiuti con i due conconduttori, sia pure con la pattuizione di una penale, si è risolta – come invece non ha colto la Corte milanese – in un comportamento diretto a consentire, nell’economia dello svolgimento del rapporto locativo, la protrazione della permanenza sul terreno del deposito di rifiuti da chiunque fosse stato effettuato, fossero stati i conconduttori o terzi soggetti, e, quindi, in una condotta di violazione dell’art. 14, comma 1, del citato D.Lgs..

Infatti, anzichè pretendere dai conduttori l’immediata rimozione dei rifiuti, la qui resistente acconsentiva alla loro permanenza sul terreno. Al riguardo, una volta considerato che come s’è veduto, la previsione del dovere di rimozione e ripristino è imposta dall’art. 14, comma 3 direttamente al proprietario e lo è anche quando egli eserciti indirettamente il godimento, è palese che, acquisita la consapevolezza della presenza dei rifiuti, il dovere di attivarsi si radicava immediatamente sulla convenuta e doveva essere azionato utendo, anche nei termini adombrati sopra in ragione dell’eventuale atteggiamento di rifiuto dei conduttori, di tutte le facoltà esercitabili contro i conduttori per esigere che la situazione illecita cessasse. Invece, la resistente ha consentito che l’esercizio del godimento continuasse per dieci mesi, pur pattuendo lo sgombero entro quel termine e prevedendo una penale una volta decorso il termine.

Va rilevato che priva di pregio, giusta le osservazioni ricostruttive già svolte, è l’affermazione della Corte territoriale che la resistente non aveva potere di ingerenza diretta sull’immobile. E’ sufficiente osservare che la resistente poteva pretendere lo sgombero immediato e, contro il rifiuto dei conduttori, adire le vie giudiziali, anche in via cautelare, per ottenerlo onde non diventare corresponsabile della violazione dell’art. 14, comma 1.

L’agire della resistente si è risolto, invece, in una sorta di affidamento ai conduttori dell’incarico di provvedere alla rimozione.

Ma in tal modo la resistente (e la Corte territoriale di riflesso) non hanno considerato che, una volta conosciuta l’esistenza dei rifiuti sull’immobile locato era anch’essa direttamente obbligata a rimuoverli usando delle facoltà proprie della sua posizione di proprietaria locatrice, perchè aveva acquisito consapevolezza che il godimento dell’immobile, da essa conferito con il contratto, si svolgeva consentendo un deposito illecito. La pattuizione intervenuta con i conduttori in buona sostanza si è risolta anche neh”appaltare ad essi la realizzazione della rimozione, che, sia pure attraverso i poteri inerenti il contratto locativo contro i medesimi e, in ultima analisi, anche l’azione in giudizio, avrebbe ormai dovuto assicurare anch’essa.

A far tempo dal 5 gennaio 1989 è certo, dunque, che la resistente diventò corresponsabile nella sua qualità della violazione di cui all’art. 14, comma 1.

Il comportamento tenuto con la stipula dell’accordo, non essendosi concretato nella pretesa alla rimozione immediata è certamente contro ius (perchè omissivo dell’attivazione necessaria per far cessare immediatamente la situazione di deposito) ed inoltre colpevole, perchè non si è risolto nella tenuta dell’unica condotta che sarebbe stata doverosamente esigibile una volta conosciuta la presenza dei rifiuti e che, del resto, era pienamente possibile.

La stessa previsione del termine entro il quale la rimozione da parte dei conduttori doveva avvenire, si è concretata in una iniziativa volta a perpetuale la situazione di illecito deposito e, dunque, nella condivisione della responsabilità dello stesso.

Del tutto sorprendente ed illogica in iure è l’affermazione della Corte milanese là dove – pur ipotizzata un’eventuale eccessività del termine di dieci mesi, peraltro non cogliendo il rilievo di quanto appena si è osservato – ne assume l’irrilevanza perchè il danno ambientale si sarebbe verificato dopo ben sei anni, cioè nel settembre del 1996, quando l’**** esondò.

Intanto, si deve osservare che non si discute di danno ambientale, bensì della pretesa al costo del ripristino, tant’è che già il primo giudice rigettò la domanda relativa al danno ambientale con statuizione definitiva. Ed allora, il fatto che l’esondazione si sia verificata nel 1996, una volta considerato che le spese di ripristino sono quelle occasionate da essa, perchè i rifiuti sotto l’azione del fiume hanno cagionato i danni che hanno richiesto l’attività di ripristino, va valutato nel senso che ai fini della responsabilità per esse sia configurabile la permanenza della situazione di deposito illecito fino a che si verificò l’esondazione soltanto od anche per responsabilità della resistente, il che potrà incidere sull’ammontare dell’obbligo di ripristino, come si dirà di seguito. p.9.2. La Corte territoriale, oltre ad avere errato nel valutare l’accordo del 5 gennaio 1989, ha escluso la colpa della resistente altresì perchè l’area e gli stessi rifiuti erano stati sottoposti a sequestro penale.

Anche tale esclusione è erronea.

Non lo è, come pretenderebbe il ricorrente, perchè la custodia a seguito del sequestro penale era stata attribuita a dipendente della resistente per conto della stessa. La sentenza impugnata lo ha espressamente escluso e sul punto si sarebbe dovuto proporre apposito motivo di ricorso, che, invece, non lo è stato.

Fermo, dunque, che la custodia risultava attribuita ad un terzo, si osserva che, una volta considerato che la Sanitaria Ceschina era soggetto corresponsabile della violazione ed obbligato al ripristino, al fine di far cessare la sua condizione di corresponsabile dell’obbligo di ripristino nella qualità di proprietaria del terreno, in disparte la totale mancanza di attivazione nei riguardi dei conduttori quanto al rapporto locativo, bene si sarebbe potuta attivare presso l’autorità penale sollecitando o il dissequestro dell’area e dei rifiuti od anche dei soli rifiuti, al fine di adempiere l’obbligo di rimozione e di metterli in sicurezza, oppure avrebbe potuto sollecitare quella autorità all’adozione di eventuali cautele per la custodia dei rifiuti sì da escludere ogni situazione di pericolo.

E’ del tutto errata l’affermazione della Corte territoriale che l’esistenza della situazione di sequestro penale esenterebbe da colpa la società resistente, perchè aveva “tolto al S. ed al C., senza recupero da parte della società stessa, la disponibilità dell’area e la possibilità di prelevarvi e portare altrove i rifiuti tossici”. Deve, infatti, rilevarsi che, non solo – per quanto osservato sull’accordo del 5 gennaio 1989 – che i conduttori non potessero adempiere all’impegno di rimozione (ma anch’essi avrebbero potuto attivarsi presso l’autorità penale) è circostanza del tutto irrilevante, perchè la resistente, divenuta corresponsabile della violazione dell’art. 14, comma 1, era obbligata essa stessa; ma, inoltre, l’affermazione trascura di considerare che la posizione della società non era quella di soggetto nella disponibilità materiale dell’area e dei rifiuti, bensì di soggetto che, godendo indirettamente dell’area tramite i conduttori, aveva l’obbligo di attivarsi sul piano del rapporto locativo e, sopravvenuto il sequestro, interloquendo con l’autorità penale.

Il sopravvento sequestro penale, infatti, nessun mutamento rispetto alla situazione della resistente ebbe, in definitiva, ad operare:

essa non aveva la materiale detenzione prima e ha continuato a non averla dopo. L’onere di attivarsi non era correlato prima a detta detenzione e ha continuato a non esserlo dopo.

L’atteggiamento di inerzia della società resistente appare allora del tutto ingiustificato.

E’ appena il caso di rilevare che anche nella situazione antecedente al nuovo art. 104-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale dalla (introdotto lett. b) della L. n. 94 del 2009, art. 2, comma 9 che ha previsto l’istituto dell’amministrazione dei beni sequestrati (su cui, recentemente Cass. pen. n. 22028 del 2010 e n. 35081 del 2010), situazioni di sequestro di aree contaminate da rifiuti e di rifiuti bene potevano essere gestite dagli interessati prospettando all’autorità penale l’opportunità dell’adozione di specifiche misure custodiali, posto che nell’ambito del potere di custodia dei beni sequestrati certamente quella autorità poteva stabilire determinate modalità di svolgimento di essa.

9.3. Il terzo motivo di ricorso è improcedibile, perchè non si è prodotto il verbale di udienza dal quale dovrebbe riscontrarsi la testimonianza cui si fa riferimento, siccome imponeva l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 e, fra l’altro, nel fascicolo d’ufficio della Corte d’Appello non è presente il fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado, in cui la prova venne assunta.

Inoltre, non si è trascritto il contenuto del verbale del 5 gennaio 1989, onde il motivo difetta anche di autosufficienza. p.10. Venendo all’esame del ricorso incidentale, che, in ragione della sussistenza delle condizioni di fondatezza dei primi due motivi del ricorso principale, deve esaminarsi anche quanto ai motivi condizionati, il Collegio rileva quanto segue. p.10.1. La cassazione della sentenza in accoglimento del ricorso principale ed il rinvio fanno venir meno la statuizione sulle spese cui il motivo di ricorso incidentale non condizionato si riferisce.

Esso resta, dunque, assorbito. p.10.2. Il primo motivo di ricorso incidentale è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Il Collegio osserva anzitutto che è condivisibile il principio di diritto secondo cui “La mancata sospensione del giudizio, nei casi in cui se ne assume la necessarietà, integra un vizio della decisione, astrattamente idoneo ad inficiare la successiva pronuncia di merito;

essa, traducendosi nella violazione di una norma processuale, ricade nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ed è quindi deducibile con il ricorso per cassazione avverso la sentenza che contenga eventuali provvedimenti sulla sospensione, ovvero ribadisca o modifichi precedenti ordinanze adottate in materia nella fase dell’istruzione della causa, fermo restando che eventuali provvedimenti di sospensione, se positivi, sono autonomamente impugnabili con istanza di regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ., come sostituito dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 6.” (Cass. n. 16992 del 2007).

Nella specie il motivo è, tuttavia, inammissibile per difetto di autosufficienza per queste ragioni.

Infatti, non solo non si riproduce – se non genericamente quanto alla mera intestazione dei motivi di uno di essi – il contenuto dei ricorsi introdotti contro le ordinanze del Sindaco del Comune di Marnate, ma nemmeno si indica se e dove i relativi ricorsi sarebbero stati prodotti, sì da mettere in grado la Corte di esaminare il preteso rapporto di pregiudizialità.

Ne consegue che viene in rilievo in primo luogo il consolidato principio di diritto secondo cui “Con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, ad integrare il requisito della cosiddetta autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione concernente, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (ma la stessa cosa dicasi quando la valutazione dev’essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio ai sensi dell’art. 360, n. 3 o di un vizio integrante error in procedendo ai sensi dei nn. 1, 2 e 4 di detta norma), la valutazione da parte del giudice di merito di prove documentali, è necessario non solo che tale contenuto sia riprodotto nel ricorso, ma anche che risulti indicata la sede processuale del giudizio di merito in cui la produzione era avvenuta e la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte, rispettivamente acquisito e prodotti in sede di giudizio di legittimità essa è rinvenibile. L’esigenza di tale doppia indicazione, in funzione dell’autosufficienza, si giustificava al lume della previsione del vecchio n. 4 dell’art. 369 c.p.c., comma 2, che sanzionava (come, del resto, ora il nuovo) con l’improcedibilità la mancata produzione dei documenti fondanti il ricorso, producibili (in quanto prodotti nelle fasi di merito) ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., comma 1” (Cass. n. 12239 del 2007, seguita da numerose conformi).

9.3. Il secondo motivo di ricorso incidentale è manifestamente infondato, perchè l’art. 346 c.p.c. è invocato a torto. Poichè la sentenza di primo grado aveva rigettato l’eccezione di prescrizione, la decisione al riguardo, come correttamente ha affermato la Corte territoriale, avrebbe dovuto essere impugnata sul punto con apposito motivo di appello, che invece non venne svolto. E’ appena il caso di rilevare che la citata norma riguarda non la posizione dell’appellante, ma quella dell’appellato e, dunque, non è dato comprendere come la resistente possa invocarla.

D’altro canto, è stato condivisibilmente rilevato che “Affinchè possa ritenersi che l’atto di appello investa nella sua totalità la sentenza impugnata, la quale abbia rigettato la domanda con una pluralità di autonome statuizioni, non è sufficiente la richiesta di riforma integrale della sentenza medesima o il generico richiamo alle domande ed eccezioni formulate in primo grado, qualora le censure svolte con i motivi siano limitate soltanto ad una od alcune di dette statuizioni, e, quindi, precludano di individuare un’inequivoca volontà di devolvere al giudice di secondo grado il riesame anche delle altre.” (Cass. n. 22271 del 2004, fra tante). p.11. Conclusivamente, il ricorso principale è accolto quanto ai primi due motivi. Il terzo motivo è dichiarato improcedibile.

L’unico motivo di ricorso incidentale non condizionato è assorbito.

Il primo motivo di ricorso incidentale condizionato è dichiarato inammissibile, mentre il secondo è rigettato.

Il giudice di rinvio, in ragione della cassazione della sentenza impugnata, in accoglimento dei primi due motivi di ricorso principale, deciderà sulla controversia considerando che la resistente versava in una situazione di colpa nella causazione della situazione che ha determinato le spese di ripristino sopportate dal Comune.

E’ da rilevare che non ricorrono le condizioni per la decisione sul merito.

Il Collegio, infatti, osserva – cosa che può fare d’ufficio non essendo sul punto necessari accertamenti di fatto e trattandosi di quaestio iuris non riservata al monopolio del potere di rilevazione delle parti – che, avuto riguardo alla consecuzione della vicenda fino all’esondazione del fiume ****, risulta l’esistenza di una situazione nella quale, ferma l’esistenza del comportamento colpevole rilevante sul piano causale della resistente, appare necessario verificare se la causazione delle spese sopportate per l’attività di ripristino risulta addebitabile interamente ai soggetti contemplati dall’art. 14, comma 3, cioè ai conduttori ed alla proprietaria Sanitaria Ceschina, quali responsabili ai sensi dell’art. 14, comma 1, oppure risulti addebitabile ad essi soltanto in parte alla stregua dell’art. 1227 c.c., comma 1, data la pacifica protrazione della permanenza della presenza dei rifiuti per ben sei anni prima della esondazione. In particolare, la Corte ritiene meritevole di verifica l’ipotesi che alla determinazione del danno abbia potuto concorrere anche il fatto della stessa amministrazione comunale, giacchè essa, al di là dell’esercizio dei poteri amministrativi con le sue ordinanze, si sarebbe dovuta attivare presso l’autorità penale per l’adozione di opportune cautele volte ad evitare la permanenza della situazione di deposito potenzialmente pericoloso fino all’evento della esondazione dell’****.

Il giudice di rinvio, dunque, ferma l’attribuzione alla Sanitaria Ceschina di una responsabilità nella causazione delle spese di ripristino, provvederà, sulla base della valutazione delle risultanze degli atti a stabilire se tale responsabilità riguardi l’intero loro ammontare oppure, per avere concorso alla loro causazione anche i comportamenti dell’amministrazione comunale, concerna solo una parte di esse.

Il Collegio non ignora che una non recente decisione della Corte, circa la rilevazione d’ufficio dell’esistenza di una fattispecie riconducibile all’art. 1227 c.c., comma 1, si era così espressa: “Il giudice deve proporsi anche d’ufficio la questione dell’eventuale concorso di colpa da parte del danneggiato e, in caso di accertata sussistenza di tale concorso, deve procedere, altresì, in Sede d’accertamento della responsabilità, alla qualificazione dell’incidenza causale del concorso stesso. Infatti, allorquando si prende in esame la colpa dell’autore del danno, si prende, per ciò stesso, in considerazione anche la colpa eventuale del danneggiato, in quanto le colpe dei due soggetti si fronteggiano e la gravità della colpa dell’uno va posta in correlazione con la gravità della colpa dell’altro, al fine di accertare l’entità dell’efficienza causale del fatto colposo del debitore dell’indennizzo. Tuttavia il concorso di colpa del danneggiato può essere rilevato dal giudice sempre che la controparte, pur non avendolo specificamente dedotto, abbia ritualmente prospettato al giudice di merito gli elementi di fatto dai quali si possa desumere la ricorrenza del fatto colposo del danneggiato. Qualora, poi, il giudice di primo grado non abbia rilevato d’ufficio se le dedotte circostanze potessero integrare una colpa concorrente del danneggiato, la parte ha l’Onere di proporre appello per tale omissione, dato che la rilevabilità d’ufficio non comporta altresì che essa possa farsi valere in ogni stato e grado del processo e se non abbia proposto appello, non può dedurre per la prima volta in Cassazione la questione del concorso di colpa del danneggiato” (Cass. n. 1687 del 1969).

La decisione non sembra condivisibile nella parte finale, perchè essa, là dove postula la formazione di una sorta di giudicato implicito, è in contraddizione con la rilevabilità d’ufficio della situazione riconducibile all’art. 1227 c.c., comma 1, del resto ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte (si vedano di recente Cass. n. 23794 del 2009 e n. 3672 del 2010).

Un limite alla rilevabilità d’ufficio in sede di legittimità della fattispecie di cui all’art. 1227, comma 1 può in realtà ravvisarsi solo sotto il profilo che siano necessari accertamenti di fatto.

Peraltro, nella specie il Collegio non procede alla rilevazione d’ufficio della fattispecie de qua in funzione di decisione, bensì per giustificare la necessità che la cassazione sia disposta con rinvio. Occorre, infatti, come s’è detto, che il giudice di merito proceda alla verifica in concreto del modo di essere della fattispecie sulla base degli elementi di fatto acquisiti al giudizio, che da questa Corte non sono esaminabili. p.11.1. Il giudice di rinvio si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Milano, che deciderà comunque in persona di diversi magistrati addetti all’ufficio anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso principale. Dichiara improcedibile il terzo. Dichiara assorbito il motivo di ricorso incidentale non condizionato. Rigetta i ricorso incidentale condizionato. Rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano, comunque in persona di diversi magistrati addetti all’ufficio, anche per le spese del giudizio di cassazione.


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